Il Bergamino
IL Bergamino
Locatello. Tra la collina e la montagna di quella Valle Imagna che ha sempre regalato lavoro e poche soddisfazioni. Le coste tutt’intorno segnavano la strada dei bergamini, di quelle famiglie di allevatori transumanti che hanno determinato il passato e il destino di questi luoghi. Il passaggio è sempre la verecondia delle tracce rimaste sull’asfalto di chi quei percorsi li ha fatti perpetuamente per anni senza accorgersi di nulla, senza una ricchezza e senza una materialità. Finito l’asfalto, tra un declivio e un terrazzamento, una mulattiera a scalini di pietra consumata porta all’obiettivo di un’assenza e di uno stupore. Condizione necessaria per la vita di un artigiano: gli agi della vecchiaia non sono mai arrivati. Neppure come mancanza. Carlin Rota ha ottantacinque anni, ha fatto il bergamino per metà della sua vita e fa il formaggio due volte al giorno da sempre. Tutti i giorni. Stracchino a munta calda con gli insegnamenti del nonno morto quando lui aveva undici anni. Senza reticenze, sena nascondigli, senza lamentele. Con la felicità straziante di chi ha vissuto la vita per quella che era. Una vocazione di barbe lunghe e rughe che non è mai scesa a compromessi con il secolo. Così l’artigianato delle schiene rotte rimane l’unica spiegazione ai racconti senza noia. Icastico come nessuno mai.
Caldera in rame, canne di fiume per facilitare lo spurgo del siero e cassette di legno. Munta calda alla sera e alla mattina. Nessun fuoco. Latte crudo e pasta cruda, forse il latto-innesto, forse nulla. Il formaggio non ha occhiature, così tipicamente contemporanee, nessuna acidità, stagionatura corretta e poca proteolisi. Estremamente pannoso, con ritorni di fieno poco controllati e particolarmente selvatici. Con quella tenerezza pulita che non può essere messa in discussione. È un formaggio assiomatico che non ha necessità di avere un confronto e di avere una vendita. Il latte è molto grasso dando alla pasta una masticabilità unica.
Le vacche di Carlo sono quella storia che non può essere tradita. Stracche e riposate, stalla anti-estetica, casa rimasta ferma al vino versato in tazza, foto sbiadite, una moglie latente e una figura al di là di ogni formaggio, di ogni eredità, di qualunque lascito terreno. Carlin fa il formaggio da sempre, da quando suo nonno lo ha messo per strada dividendo il suo anno in tre limiti ben definiti: a San Michele (29 settembre), dopo aver venduto tutti i prodotti, si scendeva nella provincia lodigiana e si stipulava il contratto del fieno, per l’utilizzo di pascoli e stalle, che durava fino a San Giorgio (23 aprile), giorno in cui scadeva. Finito il fieno bisognava stipulare un breve contratto per l’erba della durata di poco più di un mese prima di ripartire per la montagna e per gli alpeggi. Nel mezzo c’erano i mercati, le trattative, le imposizioni del prezzo e le campane cadenzanti. I bergamini hanno insegnato a fare il formaggio alla Pianura Padana , han lasciato giù i più ricchi (Locatelli, Invernizzi e Galbani), si sono sposati e han creato famiglie. Han fondato aziende di stagionatura (prima “caiaje”) e han messo in piedi aziende agricole. Il tutto mentre la montagna si svuotava e sempre in meno transumanti tornavano a casa. Carlo Rota ha fatto una scelta geografica e antropica, ha deciso per la tradizione e per l’impossibilità di stare lontano dalla sua Valle Imagna, un luogo sepolto dove nasce lo stracchino, senza documenti, senza belletti e senza formaggi d’alpeggio più grossi di un quadrato di 18×18 centimetri. Il perché è una spiegazione e un simbolo di un’altra storia. Qui i grossi mandriani avevano al massimo otto vacche. La sussistenza era l’economia di questi luoghi messi a ferro e fuoco da Carlin, un sorriso al di là di qualsiasi ubbia e di qualsiasi pregiudizio, un uomo che della finitudine se ne è sempre infischiato, rimanendo talmente esotico da non avere un paragone. Due ore a rivangare il dialetto delle vendite, i cognomi appartati e riconosciuti con il paese d’origine, la disfida e la contiguità tra valli per una paternità riconosciuta, dove lo stracchino gioca il ruolo determinante di una vita riportata al presente per momenti e per situazioni. Buffe e tragiche, in quel susseguirsi senza tempo di una verità chiara, senza opinioni, senza vie di fughe e senza rilanci. Per arrivare così, bisogna vivere così, non ci sono interdizioni o consorterie, servono due occhi terrificanti, una barba monacale e quella nitidezza di racconto, da letto in paglia e cicli stagionali, che lascia ancora nitida la speranza di un’empatia sopraffina e di una vita vissuta. Al di là di tutto, dei documentari, dei giornalisti americani, dell’interesse post-moderno al passato come forma di beatitudine, quello che resta è il valore del tempo in quanto valore, senza obblighi o dettami, senza compiacenze o inchini. Tutto viene ancora mosso dall’inter-esse, dalla relazione, da quell’ospitalità che ha lasciato tutto intatto nella convinzione di rimanere sempre al passo con l’entusiasmo. Mostrare e curare la propria terra